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Endometriosi e riconoscimento di sè

Un aspetto che emerge spesso nel lavoro con le donne affette da endometriosi e/o adenomiosi riguarda la sensazione di non essere o non essere state ascoltate, credute, prese sul serio rispetto ai propri sintomi fisici e alle difficoltà che ne derivano.

Un’esperienza che accomuna molte pazienti, le quali spesso affrontano una sorta di lungo e sfiancante “pellegrinaggio” da un professionista all’altro, nel tentativo di trovare soluzione e spiegazione al proprio problema.

Le pazienti riportano di essersi sentite non ascoltate, banalizzate o colpevolizzate, fin da subito o a seguito di approfondimenti sanitari che non hanno portato a chiarire il problema. Molte donne raccontano di essersi sentite dire che il dolore è normale, che non sono capaci di sopportarlo, che non c’è nulla che non vada e dunque il problema deve essere psicologico o che con una gravidanza tutto passerà. Finiscono dunque per continuare nella loro ricerca di aiuto o per convincersi (o almeno provarci) che i loro sintomi siano davvero normali o frutto di stress. Nel corso del tempo però dolore fisico e sofferenza emotiva aumentano. I vissuti di sfiducia, rabbia, tristezza, colpa, vergogna e impotenza sono molto frequenti e si perde inoltre tempo prezioso prima di giungere finalmente a una diagnosi chiara.

L’esperienza di non sentirsi ascoltate e aiutate peraltro si ripresenta spesso anche in seguito, in quanto la malattia cronica richiede ulteriori controlli ed interventi e il suo decorso non è per tutte uguale. Inoltre può essere difficile far comprendere la propria situazione e le proprie difficoltà in famiglia, sul lavoro, agli amici.

Nei colloqui di supporto psicologico emerge spesso che questa dolorosa sensazione di non essere viste e comprese, ma anzi sminuite, derise o colpevolizzate non è nuova. Si tratta di un’esperienza che già può essere presente – o esserlo stata in passato – rispetto ad altre situazioni di vita, ambiti relazionali (famiglia, coppia, amicizie, lavoro) o rispetto temi specifici che vanno al di là della malattia. In alcune situazioni si è sperimentato un non riconoscimento ampio e pervasivo dei propri vissuti, pensieri, scelte di vita.

Trovarsi nuovamente e ripetutamente esposte a queste esperienze rischia di amplificare le emozioni spiacevoli e le conseguenti reazioni, di riaprire vecchie ferite, di rendere ancora più faticose le relazioni con gli altri, oltre che l’accettazione di sé e della malattia. Il bisogno, comprensibile, di versi riconosciute e legittimate nelle proprie sofferenze rischia di diventare così forte che tutta l’attenzione si concentra sull’altro e sulle tante aspettative frustrate, perdendo di vista se stesse.

Nel lavoro di supporto psicologico diventa quindi importante creare uno spazio in cui le problematiche fisiche e le fatiche emotive possano essere prima di tutto espresse e credute, per poi iniziare a lavorare su di sé e sulla possibilità di attivarsi per costruire una migliore qualità di vita e relazioni interpersonali più equilibrate.

Ascoltare e riadattarsi

In questo lungo periodo di emergenza sanitaria e di lock down ho pensato spesso a cosa avrei potuto scrivere, a quali riflessioni proporre, a quali “consigli” sarebbe stato utile dare. Siamo stati bombardati di notizie, informazioni, indicazioni e in molti hanno “detto la loro”, in modo in realtà non sempre appropriato. Personalmente ho sentito preferibile stare nella situazione e dedicare spazio all’ascolto, di me stessa e dei pazienti. Sono stati mesi in cui ho accolto emozioni e riflessioni che talvolta potevano apparire contrastanti, ma che di fatto coesistevano in una situazione che, tuttora, è per molti versi confusa. Non esistono modi “giusti” o del tutto prevedibili di affrontare quanto è accaduto e sta accadendo e come professionisti è nostro compito esserci, ascoltare, contenere tutto ciò che emerge. La crisi ha colpito a molti livelli ed è andata a toccare corde differenti in ciascuno, in base al funzionamento di personalità, alle esperienze concrete vissute, ai contesti e alle condizioni di vita.

Paura, rabbia, angoscia, delusione, noia, impotenza, confusione. Ma anche benessere, scoperta, risorse positive. Ho ascoltato il desiderio, talvolta bisogno urgente, di “tornare come prima”, esattamente così e subito, altrimenti niente. La paura che “come prima” non si tornerà più. Al contempo la paura di contagiare, contagiarsi, ripiombare nell’emergenza. La malattia come qualcosa di lontano o al contrario vissuto sulla propria pelle. Il lutto che in assenza della consueta ritualità ha dovuto trovare nuove strade di elaborazione. La rabbia per i limiti imposti, ma anche dovuta all’angoscia perché ci si è trovati esposti alla precarietà, alla perdita improvvisa, spesso senza aiuti concreti. La solitudine. La scoperta che gli altri sono importanti, ma anche che si è capaci di stare da soli. La possibilità di fermarsi e finalmente riposare, ma anche l’impossibilità di farlo perché schiacciati da un numero ancora maggiore di incombenze quotidiane. Il vuoto che in realtà è pieno di cose, la scoperta che si può stare faccia a faccia con sé stessi o che si ha troppa paura per farlo. La difficoltà a confrontarsi con l’attesa, ma anche la capacità di affrontarla perché è qualcosa che si conosce bene. La sensazione che ci sia un’energia che vorrebbe venire fuori, ma è difficile darle una forma perché ci si sente annebbiati, stanchi. La consapevolezza che senza “rumore di fondo” sono rimaste le cose essenziali, quelle importanti, ma anche che a volte sono proprio quelle a non andare come vorremmo ed è venuto il momento di occuparsene invece di continuare a scappare.

Nella crisi c’è anche l’opportunità, ma prima è normale che ci siano confusione e paura. C’è lo sconforto di chi non sa in che direzione andare. C’è la lotta di chi pesta i piedi perché non è questo quello che voleva. Arriva però anche il tempo dell’adattamento, che non significa non-vivere o vivere un surrogato di ciò che era prima, ma accettare che qualcosa è accaduto, che non esistono magiche macchine del tempo, ma possiamo provare a costruire nuovi equilibri che tengano insieme realtà e bisogni. Siamo capaci di farlo, tutta la nostra vita è stata un continuo ri-adattarsi ai cambiamenti fuori e dentro di noi. Possiamo farlo ancora, dobbiamo provarci ancora, perché nonostante tutto siamo qui, respiriamo, pensiamo, proviamo emozioni, insomma siamo vivi.