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Oltre la paura per conoscere i figli adolescenti

Capita spesso che i genitori portino in terapia il proprio figlio adolescente o pre-adolescente bollandolo come “il problema” o definendo i suoi comportamenti come problematici. Talvolta sono presenti sintomi veri e propri che parlano di una sofferenza già molto profonda, in altri casi i genitori riportano che i figli non ascoltano, non si impegnano, non dialogano con loro, passano tutto il tempo con gli amici o chiusi in casa. Elemento comune è di solito la rigida focalizzazione sugli aspetti negativi, ma se il figlio si sente solo “un problema” e non una persona degna di parola, allora difficilmente si potrà lavorare insieme e trovare una soluzione.

Siamo forse poco abituati a pensare all’adolescenza al di là degli aspetti di crisi, come fase che ha in sé anche elementi positivi o quantomeno di potenziali risorse. L’adolescente non è bambino, non è adulto, ma è persona con i suoi pensieri, vissuti e caratteristiche, seppur in trasformazione. Spesso la comprensibile angoscia e rabbia degli adulti impedisce di porsi una domanda importante: quanto conosco mio figlio come persona? sono in grado di descrivere cosa gli piace, cosa pensa, cosa desidera o come funziona nelle diverse situazioni? Spesso non si riesce ad andare oltre le etichette rigide e stigmatizzanti, ma bisogna sforzarsi di osservare sospendendo il giudizio e ritrovare una curiosità per quel figlio che pure può apparire lontano.

Talvolta la curiosità è bloccata dalla paura. Molti genitori vorrebbero che il figlio tornasse “come prima, quello che è davvero”, intendendo il bambino dolce e simpatico che è stato fino a un certo punto. In realtà il figlio cresce ma è sempre lui, non accettare che possa tirare fuori parti di sé che magari non ci piacciono o ci mettono in crisi significa lanciare un messaggio pericoloso: non vai bene, sei sbagliato. Chiusura, vergogna, senso di colpa, fino all’esplosione di sintomi anche importanti rischiano di essere la risposta.

Spesso mi è capitato di incontrare ragazzi con una grande confusione e sofferenza interiore, impossibilitati ad esprimersi perché timorosi di ferire gli adulti, di essere disapprovati, di non essere aiutati. Una volta un genitore ha raccontato “mio figlio mi guarda con degli occhi che vorrebbero dire tanto, ma non dice, come se aspettasse che io lo legga dentro, ma io non sono capace”. In effetti è proprio così, molti ragazzi sperano che gli adulti siano in grado di immaginare cosa provano, cosa vivono, di cosa hanno bisogno, che siano loro ad aiutarli a fare chiarezza, a dare un nome alle cose e a rassicurarli del fatto che sono normali, contenendoli, trovando insieme una soluzione. La delusione è grande quando i genitori non riescono mai a fare questo: se non sono comprensibile neanche ai miei genitori, come potranno comprendermi gli altri? vuol dire allora che sono sbagliato?

Spesso gli adulti riferiscono di sentirsi estromessi dalla vita dei figli, ma al contempo può emergere la paura di conoscere o una scarsa curiosità. Quanto siamo capaci di osservare, dialogare, ascoltare senza proporre subito i nostri giudizi e punti di vista e senza dare per scontato di sapere tutto o di essere stati figli “migliori”? Se oggi i figli sono l’apice della realizzazione personale, se ogni difficoltà diventa prova della propria incapacità genitoriale, allora il rischio è essere guidati dalla paura, lasciare i figli da soli allo sbaraglio o diventare eccessivamente rigidi per poi scaricare su di loro la colpa se qualcosa va storto.

Le difficoltà dei genitori sono assolutamente comprensibili, ma è importante che loro per primi siano onesti rispetto ai propri sentimenti e difficoltà, che d’altra parte non riguardano solo i comportamenti dei figli, ma anche ciò che capita in altre aree della vita. Ciascuno ha i propri pesi quotidiani da gestire e adolescenza significa anche accettare che i figli crescano, che i nonni invecchino, dovere reinvestire su di sé e sulla coppia. Non è semplice stare dietro agli equilibri che cambiano, ma invece di nascondersi è importante dialogare e costruire una rete di supporto. Se i figli diventano il capro espiatorio o portatori di pesi che non competono loro il rischio è che tentino una sfida impossibile: non crescere, chiudendosi o costruendo un’identità negativa, consentendo ai genitori di deviare su di loro tutta la tensione.

Dobbiamo anche chiederci che idea della crescita, dell’adolescenza e dell’età adulta trasmettiamo ai ragazzi di oggi, anche sulla base delle nostre esperienze passate. Se l’adolescenza è per forza “tutto rose e fiori” come potrò confidarmi con gli adulti quando mi sento confuso e per nulla felice? Se ci si aspetta che io diventi adulto e autonomo tutto d’un colpo come potrò chiedere aiuto se non mi sento capace? come posso crescere con fiducia se diventare grandi vuol dire recidere i legami familiari ed entrare in un mondo adulto fatto solo di fatiche e delusioni? I nostri racconti, i nostri atteggiamenti influenzano le convinzioni dei ragazzi, che oggi spesso partono già spaventati dal futuro.

Proviamo a non pensare all’adolescenza come alla fase in cui si spicca il volo, ma al momento in cui si costruiscono gli strumenti per farlo più avanti. C’è bisogno di allontanarsi un po’ per sperimentare e poi tornare al porto sicuro per elaborare le esperienze fatte, c’è bisogno di adulti che ascoltino ed insegnino ad ascoltarsi, conoscersi, trovare dei confini adeguati. Provocazioni, litigi, ambivalenze e malumori non sono un rifiuto, ma un tentativo di testare la tenuta dei legami e così il lassismo o l’eccessiva rigidità diventano segnali di abbandono. Non evitiamo dunque il conflitto, ma facciamo sì che diventi uno spazio per scontrarsi e incontrarsi, riconoscere limiti e risorse, sperimentarsi con la consapevolezza che i legami affettivi restano saldi.

Bambini ed emozioni: niente panico!

14455700_10209674787722434_925215552_oTutti noi sappiamo che le emozioni sono una parte fondamentale della vita, non solo perché provarne è inevitabile, ma perché rappresentano una sorta di bussola che aiuta a capire di cosa abbiamo bisogno. Anche se a volte ci sembra più facile ignorarle o scacciarle in fretta, anche se viviamo in una società poco capace di “stare” nell’emozione e in cui i sentimenti vengono spesso nascosti come qualcosa di inappropriato oppure urlati e sbandierati ai quattro venti, ci rendiamo conto che sarebbe importante imparare a riconoscere e gestire adeguatamente le nostre emozioni.

Anche nell’ambito dell’infanzia si parla spesso di educazione alle emozioni: i bambini non nascono con competenze emotive innate e hanno bisogno dell’aiuto degli adulti per poter acquisire la capacità di riconoscere, comprendere ed esprimere adeguatamente i loro sentimenti. Ci sono molti libri, giochi e corsi che risultano utili a questo scopo, ma lo sforzo rischia di cadere nel vuoto se l’adulto per primo è poco consapevole di come tratta le emozioni nel quotidiano.

Ad esempio è frequente incontrare genitori che vogliono dare ai propri bambini la possibilità di esprimersi liberamente, ma che poi restano spiazzati quanto ciò accade nel concreto. Ecco allora che la rabbia del bambino, il suo pianto, i suoi capricci mettono in crisi i buoni propositi: ci si sente incapaci, innervositi, stanchi, in colpa. Un bambino felice e sereno in qualche modo ci dice che siamo stati bravi e che siamo “sulla strada giusta”, mentre un bambino che esterna emozioni spiacevoli o reazioni prorompenti ci mette in discussione (e magari nel marasma di impegni quotidiani ci mette in difficoltà e ci fa perdere tempo).

Partiamo da un presupposto: i bambini come noi provano tutta la gamma delle emozioni umane, non possiamo impedirlo. Ciò che serve al bambino è che l’adulto non entri in crisi, ma ascolti, contenga e gli restituisca ciò che sta provando in modo per lui comprensibile. Insieme si potranno anche trovare modi più appropriati di esprimere le emozioni, ma se il fatto stesso che il bambino ne provi e ne esprima ci spaventa o ci infastidisce allora rischiamo di trasmettere l’idea che le emozioni non vanno bene, non sono consentite.

Che cosa ci può essere dunque di aiuto?

  • Lavoriamo sulle nostre emozioni: mostriamo ai bambini che noi per primi siamo capaci di dare un nome alle emozioni, accettarle come qualcosa di umano, esprimerle in modo adeguato e affrontarle senza scaricarle sugli altri in modo incontrollato. I bambini si accorgono delle emozioni degli adulti e sanno bene che a volte i grandi sono incoerenti perché pretendono dai piccoli qualcosa che neppure loro sanno fare.
  • Ricordiamo che i bambini sono persone: certo è piacevole avere a che fare con bambini gentili, pazienti, felici, ma i nostri bambini non sono dei ciocchi di legno! Noi ci arrabbiamo, siamo tristi, annoiati, invidiosi e lo stesso i bambini. Se noi adulti possiamo aver imparato a reprimerci magari in nome dell’educazione, i bambini sono di solito più spontanei e diretti. Tutti possiamo acquisire la capacità di esprimerci in modo appropriato senza per questo negare le emozioni. Molti bambini si domandano perché mai gli adulti possono arrabbiarsi o piangere e a loro invece sembra non essere concesso.
  • Riconosciamo ciò che è nostro: un bambino arrabbiato o triste esprime qualcosa che ha dentro, non ha intenzione di farci sentire inadeguati, frustrati o in colpa, quindi se ci sentiamo così è un nostro problema e se non ce ne occupiamo finiremo per reagire in modo emotivo e incoerente e questo sarà inefficace. A che serve alzare la voce per dire al bambino di non urlare? E riversare sul bambino la nostra frustrazione perché è arrabbiato?
  • Prendiamo per buoni pensieri ed emozioni dei bambini: possono sembrarci inappropriati, irrazionali, andare contro tutti i valori che cerchiamo di insegnare loro, ma sono reali. Limitarci a imporre subito il nostro punto di vista adulto a suon di “non si fa/non si pensa/non si dice” “che sciocchezza” “non è niente/non è possibile” ha il solo effetto di chiudere il dialogo. Ascoltare serve a capire e capire serve a pensare a risposte più efficaci. Anche quando il bambino non sa cosa gli accade o perché ha fatto una certa cosa ricordiamoci che il suo non lo so può essere reale: siamo noi a doverlo aiutare a fare chiarezza.
  • Instauriamo un dialogo quotidiano: molti bambini avrebbero piacere di raccontarsi ma non sono abituati a farlo o sentono/temono di essere poco ascoltati. Ascoltare non significa fare un piccolo interrogatorio: Com’è andata? Tutto ok. Cosa hai fatto? Niente. Ti hanno interrogato? No. Cosa hai mangiato? Il solito. Cosa sappiamo di più di quel bambino? Praticamente niente. L’adulto che racconta per primo la sua giornata, evitando di fare l’elenco dei fatti ma raccontando qualcosa in termini emotivamente ricchi favorisce naturalmente nel bambino il piacere di raccontarsi. Allo stesso modo evitiamo di parlare solo quando accade qualcosa di brutto magari facendo ramanzine o proprio interrogatori: il bambino si chiude e quando gli accadrà qualcosa di spiacevole magari non lo racconterà e non chiederà aiuto perché si aspetterà di non essere davvero ascoltato. I bambini che cercando di sbrigarsela da soli “se no gli adulti si arrabbiano o partono in quarta” sono tantissimi.
  • Alleniamo l’arte di accorgerci: osserviamo i bambini nel quotidiano per capire che persone sono, come funzionano, di cosa hanno bisogno. Quando non sapranno cosa accade dentro di loro avremo molti più strumenti per farci noi un’idea e aiutarli a capirsi meglio. Accorgiamoci anche dei bisogni e delle emozioni nascoste sotto certi comportamenti: comportamenti dispettosi, piccole bugie…se ci limitiamo a sgridare e stigmatizzare il comportamento non riusciremo a decifrare ciò che si nasconde dietro e non capire ci impedisce di fare qualcosa di utile.
  • Creiamo momenti di espressione di sé anche attraverso canali quali il gioco, il disegno, la scrittura e non spaventiamoci di quello che viene fuori: se il bambino non può incanalare vissuti ed energie neppure in questi modi gli stiamo togliendo ogni possibilità di esprimersi.
  • Il bambino che siamo stati è un punto di partenza: quali bisogni, pensieri, sentimenti, desideri e paure avevamo da bambini nelle varie situazioni? Se ricordiamo sarà più facile metterci nei panni del nostro bambino, perché all’occhio dell’adulto molte cose possono apparire bizzarre o esagerate ma per i bambini sono invece importanti. Non fermiamoci però al è capitato anche a me, so come ci si sente: non siamo esattamente quel bambino, non possiamo sapere se è la stessa cosa, quindi non occupiamo tutto lo spazio con la nostra esperienza ma impariamo ad ascoltare l’altro.

FIGLI, GENITORI E COMING OUT : USCIRE ALLO SCOPERTO IN FAMIGLIA

FIGLI, GENITORI E COMING OUT : USCIRE ALLO SCOPERTO IN FAMIGLIA

compassion-857723_640“Coming out” significa “uscire allo scoperto” e si riferisce solitamente alla scelta di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere.

Per le persone omosessuali o bisessuali, in particolare, il coming out rappresenta una tappa importante nella costruzione dell’identità e dell’autostima: è un processo che parte innanzitutto dall’accettazione di sé, per poter vivere con più serenità e senza nascondersi, imparando a gestire lo stigma sociale.

Nonostante, infatti, l’omosessualità non sia una malattia e ciò sia stato ufficialmente riconosciuto, la nostra società non appare davvero pronta ad accettarla come qualcosa di reale e naturale. I fatti di cronaca ci raccontano di violenze e discriminazioni, ma, più in generale, parte della società e delle istituzioni non accetta o lo fa solo a parole la realtà dell’omosessualità: non solo sono ancora diffusi alcuni stereotipi, ma si fatica a superare la paura che l’adeguata regolamentazione di diritti e doveri più paritari possa minacciare valori e forme di coppia e famiglia più tradizionali.

Dati Istat (Report 2011 sulla popolazione omosessuale nella società italiana) rilevano che la maggior parte degli intervistati riconosce l’esistenza di discriminazioni nei confronti di omosessuali, bisessuali e transessuali e probabilmente per questo il 29,7% ritiene che sia meglio che essi non rivelino il proprio orientamento sessuale.

La maggior parte degli omosessuali/bisessuali intervistati ha dichiarato di aver percepito o subito apertamente discriminazioni riferibili al proprio orientamento sessuale in diversi contesti e parte del campione totale (20%) ha preferito non fornire informazioni rispetto al proprio orientamento sessuale, segno che il tema è particolarmente delicato. Solo il 20% circa dei genitori di chi si dichiara omosessuale o bisessuale è a conoscenza della condizione del figlio, mentre sembra esservi maggiore possibilità di parlare con fratelli/sorelle (45,9%), colleghi (55,7%), amici (77,4%).

In ambito psicologico, alcuni studi hanno cercato di ipotizzare le origini dell’omosessualità o si sono concentrate sulle famiglie omogenitoriali, cercando di valutare il benessere dei figli.

Non ci interessano qui i risultati e le ipotesi, non appare utile assumere atteggiamenti giudicanti, in senso negativo o positivo, né pensare di dover dimostrare per forza qualcosa. Viviamo in una società in continuo mutamento e in cui tutti viviamo esperienze, relazioni, quotidianità molteplici, ma reali, delle quali dobbiamo prendere atto e incuriosirci. Dunque potremmo chiederci cosa possono vivere un figlio e una famiglia rispetto all’omosessualità e al coming out e quali sono le sfide che più spesso si troveranno ad affrontare: questo ci può aiutare a trovare modi adeguati di sostenere chi deve confrontarsi con queste tematiche e con queste tappe di vita.

Generalmente, il riconoscimento e la scoperta della propria omosessualità genera stress, soprattutto se si vive ancora in famiglia e in contesti che favoriscono lo stigma sociale. L’accettazione di sé come persone con un orientamento omosessuale, ma pur sempre di valore, può agevolare il coming out, che resta comunque un processo graduale e continuo, poiché man mano si sceglierà se, a chi e come dirlo.

È un passo che può essere vissuto diversamente da persona a persona, ma che per molti rappresenta una liberazione, dolorosa ma necessaria. È chiaro che sentire il supporto delle persone significative è importante, soprattutto in determinati momenti, tuttavia bisogna ricordare che il coming out di un figlio rappresenta un evento non previsto e dunque sconvolgente per la famiglia. Le reazioni potranno essere diverse in base alla particolare cultura familiare e individuale, alla qualità delle relazioni, alle modalità di funzionamento, alle aspettative sul figlio. Nei genitori possono farsi spazio emozioni anche molto ambivalenti, tra la rabbia, la vergogna, il sollievo, il senso di colpa, che possono essere elaborate più o meno velocemente o possono dare vita a un rifiuto irremovibile.

Non dimentichiamo che ormai i figli sono sempre meno, sempre più pianificati e caricati di aspettative e richieste di risarcimento affettivo e rassicurazione: qualunque ostacolo ai propri piani rischia di mettere in crisi i genitori. Si può avere paura per il benessere del figlio o sentirsi in colpa perché si pensa di aver sbagliato qualcosa o di non aver capito nulla di lui. Bisogna inoltre ridimensionare certe fantasie sul futuro dei figli che erano date per scontate e fare i conti con la paura dello stigma sociale.

In realtà, questi aspetti non sono insiti solo nelle situazioni di coming out da parte di figli omosessuali, ma più in generale si ripresentano ogni volta che un figlio sceglie di condividere una parte importante del proprio sé tenuta nascosta, perché soffre nel non potersi mostrare e nel non sentirsi riconosciuto come persona reale. Quante volte occultiamo a noi stessi o agli altri, in primis i nostri cari, parti di noi che pensiamo inaccettabili? Quante volte non abbiamo il coraggio di esprimere chiaramente le nostre scelte, inclinazioni, bisogni, emozioni per paura delle conseguenze o di deludere le aspettative? Se proviamo a riflettere in questi termini, ci rendiamo conto di come ognuno nella vita debba affrontare i propri coming out, indipendentemente dall’orientamento sessuale.

Un bel video su questo tema è stato realizzato nell’ambito del progetto Condividilove, in collaborazione con l’Associazione Agedo (Associazione genitori di omosessuali), in occasione del Coming Out Day 2015

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