Archivio degli autori Emanuela Piombo

Endometriosi e riconoscimento di sè

Un aspetto che emerge spesso nel lavoro con le donne affette da endometriosi e/o adenomiosi riguarda la sensazione di non essere o non essere state ascoltate, credute, prese sul serio rispetto ai propri sintomi fisici e alle difficoltà che ne derivano.

Un’esperienza che accomuna molte pazienti, le quali spesso affrontano una sorta di lungo e sfiancante “pellegrinaggio” da un professionista all’altro, nel tentativo di trovare soluzione e spiegazione al proprio problema.

Le pazienti riportano di essersi sentite non ascoltate, banalizzate o colpevolizzate, fin da subito o a seguito di approfondimenti sanitari che non hanno portato a chiarire il problema. Molte donne raccontano di essersi sentite dire che il dolore è normale, che non sono capaci di sopportarlo, che non c’è nulla che non vada e dunque il problema deve essere psicologico o che con una gravidanza tutto passerà. Finiscono dunque per continuare nella loro ricerca di aiuto o per convincersi (o almeno provarci) che i loro sintomi siano davvero normali o frutto di stress. Nel corso del tempo però dolore fisico e sofferenza emotiva aumentano. I vissuti di sfiducia, rabbia, tristezza, colpa, vergogna e impotenza sono molto frequenti e si perde inoltre tempo prezioso prima di giungere finalmente a una diagnosi chiara.

L’esperienza di non sentirsi ascoltate e aiutate peraltro si ripresenta spesso anche in seguito, in quanto la malattia cronica richiede ulteriori controlli ed interventi e il suo decorso non è per tutte uguale. Inoltre può essere difficile far comprendere la propria situazione e le proprie difficoltà in famiglia, sul lavoro, agli amici.

Nei colloqui di supporto psicologico emerge spesso che questa dolorosa sensazione di non essere viste e comprese, ma anzi sminuite, derise o colpevolizzate non è nuova. Si tratta di un’esperienza che già può essere presente – o esserlo stata in passato – rispetto ad altre situazioni di vita, ambiti relazionali (famiglia, coppia, amicizie, lavoro) o rispetto temi specifici che vanno al di là della malattia. In alcune situazioni si è sperimentato un non riconoscimento ampio e pervasivo dei propri vissuti, pensieri, scelte di vita.

Trovarsi nuovamente e ripetutamente esposte a queste esperienze rischia di amplificare le emozioni spiacevoli e le conseguenti reazioni, di riaprire vecchie ferite, di rendere ancora più faticose le relazioni con gli altri, oltre che l’accettazione di sé e della malattia. Il bisogno, comprensibile, di versi riconosciute e legittimate nelle proprie sofferenze rischia di diventare così forte che tutta l’attenzione si concentra sull’altro e sulle tante aspettative frustrate, perdendo di vista se stesse.

Nel lavoro di supporto psicologico diventa quindi importante creare uno spazio in cui le problematiche fisiche e le fatiche emotive possano essere prima di tutto espresse e credute, per poi iniziare a lavorare su di sé e sulla possibilità di attivarsi per costruire una migliore qualità di vita e relazioni interpersonali più equilibrate.

Ascoltare e riadattarsi

In questo lungo periodo di emergenza sanitaria e di lock down ho pensato spesso a cosa avrei potuto scrivere, a quali riflessioni proporre, a quali “consigli” sarebbe stato utile dare. Siamo stati bombardati di notizie, informazioni, indicazioni e in molti hanno “detto la loro”, in modo in realtà non sempre appropriato. Personalmente ho sentito preferibile stare nella situazione e dedicare spazio all’ascolto, di me stessa e dei pazienti. Sono stati mesi in cui ho accolto emozioni e riflessioni che talvolta potevano apparire contrastanti, ma che di fatto coesistevano in una situazione che, tuttora, è per molti versi confusa. Non esistono modi “giusti” o del tutto prevedibili di affrontare quanto è accaduto e sta accadendo e come professionisti è nostro compito esserci, ascoltare, contenere tutto ciò che emerge. La crisi ha colpito a molti livelli ed è andata a toccare corde differenti in ciascuno, in base al funzionamento di personalità, alle esperienze concrete vissute, ai contesti e alle condizioni di vita.

Paura, rabbia, angoscia, delusione, noia, impotenza, confusione. Ma anche benessere, scoperta, risorse positive. Ho ascoltato il desiderio, talvolta bisogno urgente, di “tornare come prima”, esattamente così e subito, altrimenti niente. La paura che “come prima” non si tornerà più. Al contempo la paura di contagiare, contagiarsi, ripiombare nell’emergenza. La malattia come qualcosa di lontano o al contrario vissuto sulla propria pelle. Il lutto che in assenza della consueta ritualità ha dovuto trovare nuove strade di elaborazione. La rabbia per i limiti imposti, ma anche dovuta all’angoscia perché ci si è trovati esposti alla precarietà, alla perdita improvvisa, spesso senza aiuti concreti. La solitudine. La scoperta che gli altri sono importanti, ma anche che si è capaci di stare da soli. La possibilità di fermarsi e finalmente riposare, ma anche l’impossibilità di farlo perché schiacciati da un numero ancora maggiore di incombenze quotidiane. Il vuoto che in realtà è pieno di cose, la scoperta che si può stare faccia a faccia con sé stessi o che si ha troppa paura per farlo. La difficoltà a confrontarsi con l’attesa, ma anche la capacità di affrontarla perché è qualcosa che si conosce bene. La sensazione che ci sia un’energia che vorrebbe venire fuori, ma è difficile darle una forma perché ci si sente annebbiati, stanchi. La consapevolezza che senza “rumore di fondo” sono rimaste le cose essenziali, quelle importanti, ma anche che a volte sono proprio quelle a non andare come vorremmo ed è venuto il momento di occuparsene invece di continuare a scappare.

Nella crisi c’è anche l’opportunità, ma prima è normale che ci siano confusione e paura. C’è lo sconforto di chi non sa in che direzione andare. C’è la lotta di chi pesta i piedi perché non è questo quello che voleva. Arriva però anche il tempo dell’adattamento, che non significa non-vivere o vivere un surrogato di ciò che era prima, ma accettare che qualcosa è accaduto, che non esistono magiche macchine del tempo, ma possiamo provare a costruire nuovi equilibri che tengano insieme realtà e bisogni. Siamo capaci di farlo, tutta la nostra vita è stata un continuo ri-adattarsi ai cambiamenti fuori e dentro di noi. Possiamo farlo ancora, dobbiamo provarci ancora, perché nonostante tutto siamo qui, respiriamo, pensiamo, proviamo emozioni, insomma siamo vivi.

Esprimersi attraverso l’arte

L’arte è una forma di linguaggio non verbale che da sempre permette di esprimere emozioni e punti di vista sul mondo e che può suscitare in noi riflessioni e sensazioni anche intense.

Nei musei troviamo le più alte espressioni artistiche, ma anche nel nostro piccolo l’arte può diventare un mezzo per rilassarsi ed esprimersi: basti pensare alle situazioni in cui ascoltare della musica ci fa sentire meglio o ai momenti in cui ci viene spontaneo scarabocchiare un pezzo di carta per concentrarci o per scaricare la tensione. Tutti abbiamo una parte creativa e alcune persone mantengono un contatto con essa per lavoro o per hobby, ma nella maggior parte dei casi non abbiamo tempo oppure siamo fermamente convinti di non essere capaci di creare qualcosa.

I bambini sono di solito più abituati ad esprimersi usando colori, paste modellabili, costruzioni, ma anche inventando favole e canzoni. Crescendo di solito viene loro chiesto di dedicare maggiore tempo ad altre attività o di apprendere una qualche tecnica artistica. Ad esempio a scuola si insegna ai bambini a disegnare “bene”, spesso ad essere lodati sono i lavori più ordinati, allegri e realistici: i bambini possono convincersi precocemente di non essere capaci e talvolta davanti a un foglio bianco lamentano di non sapere cosa disegnare, faticando a lasciarsi andare spontaneamente. Da adulti poi usare materiale artistico può apparirci qualcosa di infantile, di inutile o di impossibile senza il possesso di adeguate conoscenze e abilità.

In realtà l’arte è prima di tutto uno strumento di espressione di sé e quindi possiamo provare ad abbandonarci al piacere di creare per creare: non dobbiamo dare vita a un prodotto esteticamente gradevole o tecnicamente perfetto, ma semplicemente lasciarci andare. L’arte ci aiuta infatti a connettere la nostra interiorità ed il mondo esterno. Ascoltarsi e riversare liberamente su un foglio forme, colori, immagini e parole ci aiuta di per sé a scaricare la tensione e ad attivare i nostri sensi. Possiamo poi osservare la nostra opera dall’esterno, in modo più distaccato, senza “psicanalizzare”, ma più semplicemente cogliendo le nostre sensazioni durante la creazione e individuando gli aspetti del prodotto che ci incuriosiscono o che ci ricordano qualcosa di noi e della nostra vita.

Disegnare, pitturare, colorare, comporre collage, usare la creta, scrivere e fare fotografie sono alcune azioni che possono aiutarci soprattutto nei periodi di confusione e stress o quanto accadono eventi importanti che non riusciamo magari a condividere ed esprimere a parole. L’arte infatti ci permette di “tirare fuori” ciò che abbiamo dentro in modo più immediato, di osservare dall’esterno e poi di riappropriarci di ciò che è nostro in una forma diversa.

Esercizi semplici ma molto utili in tal senso sono la costruzione di un diario visivo in cui tracciare quando ne sentiamo il bisogno opere grafiche del tutto spontanee oppure dedicare pochi minuti al giorno alla scrittura delle nostre sensazioni percettive ed emotive in quel momento. Riguardare anche a distanza di tempo ciò che si è prodotto è utile per cogliere i propri stati d’animo, per scoprire nuovi aspetti di sé e per rendersi conto che nonostante le difficoltà siamo sempre in cambiamento e andiamo avanti.

Oltre la paura per conoscere i figli adolescenti

Capita spesso che i genitori portino in terapia il proprio figlio adolescente o pre-adolescente bollandolo come “il problema” o definendo i suoi comportamenti come problematici. Talvolta sono presenti sintomi veri e propri che parlano di una sofferenza già molto profonda, in altri casi i genitori riportano che i figli non ascoltano, non si impegnano, non dialogano con loro, passano tutto il tempo con gli amici o chiusi in casa. Elemento comune è di solito la rigida focalizzazione sugli aspetti negativi, ma se il figlio si sente solo “un problema” e non una persona degna di parola, allora difficilmente si potrà lavorare insieme e trovare una soluzione.

Siamo forse poco abituati a pensare all’adolescenza al di là degli aspetti di crisi, come fase che ha in sé anche elementi positivi o quantomeno di potenziali risorse. L’adolescente non è bambino, non è adulto, ma è persona con i suoi pensieri, vissuti e caratteristiche, seppur in trasformazione. Spesso la comprensibile angoscia e rabbia degli adulti impedisce di porsi una domanda importante: quanto conosco mio figlio come persona? sono in grado di descrivere cosa gli piace, cosa pensa, cosa desidera o come funziona nelle diverse situazioni? Spesso non si riesce ad andare oltre le etichette rigide e stigmatizzanti, ma bisogna sforzarsi di osservare sospendendo il giudizio e ritrovare una curiosità per quel figlio che pure può apparire lontano.

Talvolta la curiosità è bloccata dalla paura. Molti genitori vorrebbero che il figlio tornasse “come prima, quello che è davvero”, intendendo il bambino dolce e simpatico che è stato fino a un certo punto. In realtà il figlio cresce ma è sempre lui, non accettare che possa tirare fuori parti di sé che magari non ci piacciono o ci mettono in crisi significa lanciare un messaggio pericoloso: non vai bene, sei sbagliato. Chiusura, vergogna, senso di colpa, fino all’esplosione di sintomi anche importanti rischiano di essere la risposta.

Spesso mi è capitato di incontrare ragazzi con una grande confusione e sofferenza interiore, impossibilitati ad esprimersi perché timorosi di ferire gli adulti, di essere disapprovati, di non essere aiutati. Una volta un genitore ha raccontato “mio figlio mi guarda con degli occhi che vorrebbero dire tanto, ma non dice, come se aspettasse che io lo legga dentro, ma io non sono capace”. In effetti è proprio così, molti ragazzi sperano che gli adulti siano in grado di immaginare cosa provano, cosa vivono, di cosa hanno bisogno, che siano loro ad aiutarli a fare chiarezza, a dare un nome alle cose e a rassicurarli del fatto che sono normali, contenendoli, trovando insieme una soluzione. La delusione è grande quando i genitori non riescono mai a fare questo: se non sono comprensibile neanche ai miei genitori, come potranno comprendermi gli altri? vuol dire allora che sono sbagliato?

Spesso gli adulti riferiscono di sentirsi estromessi dalla vita dei figli, ma al contempo può emergere la paura di conoscere o una scarsa curiosità. Quanto siamo capaci di osservare, dialogare, ascoltare senza proporre subito i nostri giudizi e punti di vista e senza dare per scontato di sapere tutto o di essere stati figli “migliori”? Se oggi i figli sono l’apice della realizzazione personale, se ogni difficoltà diventa prova della propria incapacità genitoriale, allora il rischio è essere guidati dalla paura, lasciare i figli da soli allo sbaraglio o diventare eccessivamente rigidi per poi scaricare su di loro la colpa se qualcosa va storto.

Le difficoltà dei genitori sono assolutamente comprensibili, ma è importante che loro per primi siano onesti rispetto ai propri sentimenti e difficoltà, che d’altra parte non riguardano solo i comportamenti dei figli, ma anche ciò che capita in altre aree della vita. Ciascuno ha i propri pesi quotidiani da gestire e adolescenza significa anche accettare che i figli crescano, che i nonni invecchino, dovere reinvestire su di sé e sulla coppia. Non è semplice stare dietro agli equilibri che cambiano, ma invece di nascondersi è importante dialogare e costruire una rete di supporto. Se i figli diventano il capro espiatorio o portatori di pesi che non competono loro il rischio è che tentino una sfida impossibile: non crescere, chiudendosi o costruendo un’identità negativa, consentendo ai genitori di deviare su di loro tutta la tensione.

Dobbiamo anche chiederci che idea della crescita, dell’adolescenza e dell’età adulta trasmettiamo ai ragazzi di oggi, anche sulla base delle nostre esperienze passate. Se l’adolescenza è per forza “tutto rose e fiori” come potrò confidarmi con gli adulti quando mi sento confuso e per nulla felice? Se ci si aspetta che io diventi adulto e autonomo tutto d’un colpo come potrò chiedere aiuto se non mi sento capace? come posso crescere con fiducia se diventare grandi vuol dire recidere i legami familiari ed entrare in un mondo adulto fatto solo di fatiche e delusioni? I nostri racconti, i nostri atteggiamenti influenzano le convinzioni dei ragazzi, che oggi spesso partono già spaventati dal futuro.

Proviamo a non pensare all’adolescenza come alla fase in cui si spicca il volo, ma al momento in cui si costruiscono gli strumenti per farlo più avanti. C’è bisogno di allontanarsi un po’ per sperimentare e poi tornare al porto sicuro per elaborare le esperienze fatte, c’è bisogno di adulti che ascoltino ed insegnino ad ascoltarsi, conoscersi, trovare dei confini adeguati. Provocazioni, litigi, ambivalenze e malumori non sono un rifiuto, ma un tentativo di testare la tenuta dei legami e così il lassismo o l’eccessiva rigidità diventano segnali di abbandono. Non evitiamo dunque il conflitto, ma facciamo sì che diventi uno spazio per scontrarsi e incontrarsi, riconoscere limiti e risorse, sperimentarsi con la consapevolezza che i legami affettivi restano saldi.

Supporto psicologico Online

Se non puoi recarti presso lo studio di Milano puoi richiedere colloqui di sostegno psicologico individuale anche a distanza mediante la piattaforma Skype!

Il servizio di Supporto psicologico Online ti permette di effettuare colloqui di consulenza psicologica individuale a distanza. I colloqui avvengono mediante video-chiamata sulla piattaforma Skype e hanno una durata di 60 minuti.

Il servizio è utile per chi non ha la possibilità di raggiungere lo studio o si sente più a suo agio nella propria abitazione, per chi viaggia spesso o per chi vive all’estero o in altre città italiane.

Come funziona? Il servizio si può prenotare telefonando al numero 370-1016616. Potrai spiegare quali sono le tue difficoltà e le tue richieste e ti verranno fornite tutte le informazioni utili.

Se vorrai usufruire del servizio troveremo insieme una data e un orario in cui ti potrai connettere per ricevere la consulenza. Prima del colloquio dovrai compilare, firmare ed inviare via e-mail il modulo di consenso informato che ti sarà mandato per posta elettronica e dovrai effettuare il pagamento anticipato del compenso stabilito mediante bonifico bancario all’IBAN che ti sarà comunicato.

Cosa serve? Per usufruire del servizio sono necessari: una buona connessione a internet, un paio di cuffie, un microfono e una webcam, il programma Skype che puoi scaricare all’indirizzo https://www.skype.com/it/get-skype/

Ricorda che le consulenze online non vengono registrate e durante le stesse nessun altro oltre alla psicologa sarà presente nella stanza.

Counseling e Psicoterapia a Milano

Stai attraversando un momento della tua vita difficile o confuso a livello personale, di coppia o familiare? Puoi chiedere una consulenza presso lo studio di Milano

A tutti nella vita capita di dovere affrontare periodi complicati nei quali ci si sente confusi e sembra non esserci una via d’uscita. A volte si tratta di difficoltà personali che ci portiamo dietro da tempo e che non ci permettono di avere una buona qualità di vita, altre volte ci sentiamo di fronte a un bivio o è accaduto qualcosa che ha “sparigliato le carte” della nostra vita e che non riusciamo ad affrontare. I rapporti con il partner, la famiglia, i figli, gli amici possono farci soffrire perchè ci sembra di non riuscire a comunicare in modo sereno e di non trovare ascolto e sostegno.

Il supporto psicologico e la psicoterapia individuale, di coppia o familiare, a seconda delle situazioni, possono aiutarti a fare chiarezza e a conoscerti meglio, ad accettare le difficoltà e le emozioni che ne conseguono, a scoprire le risorse che si trovano in te e intorno a te.

Come fare? Puoi telefonare al numero 370-1016616 per esporre le tue difficoltà. Ti verranno fornite tutte le informazioni e se vorrai fisseremo un appuntamento presso lo studio per capire meglio quali sono i tuoi obiettivi e quale tipo di percorso può essere più indicato.

I colloqui si svolgono presso lo studio di Via Lattanzio 56 a Milano, solitamente a cadenza settimanale o quindicinale, e durano 60 minuti.

Bambini ed emozioni: niente panico!

14455700_10209674787722434_925215552_oTutti noi sappiamo che le emozioni sono una parte fondamentale della vita, non solo perché provarne è inevitabile, ma perché rappresentano una sorta di bussola che aiuta a capire di cosa abbiamo bisogno. Anche se a volte ci sembra più facile ignorarle o scacciarle in fretta, anche se viviamo in una società poco capace di “stare” nell’emozione e in cui i sentimenti vengono spesso nascosti come qualcosa di inappropriato oppure urlati e sbandierati ai quattro venti, ci rendiamo conto che sarebbe importante imparare a riconoscere e gestire adeguatamente le nostre emozioni.

Anche nell’ambito dell’infanzia si parla spesso di educazione alle emozioni: i bambini non nascono con competenze emotive innate e hanno bisogno dell’aiuto degli adulti per poter acquisire la capacità di riconoscere, comprendere ed esprimere adeguatamente i loro sentimenti. Ci sono molti libri, giochi e corsi che risultano utili a questo scopo, ma lo sforzo rischia di cadere nel vuoto se l’adulto per primo è poco consapevole di come tratta le emozioni nel quotidiano.

Ad esempio è frequente incontrare genitori che vogliono dare ai propri bambini la possibilità di esprimersi liberamente, ma che poi restano spiazzati quanto ciò accade nel concreto. Ecco allora che la rabbia del bambino, il suo pianto, i suoi capricci mettono in crisi i buoni propositi: ci si sente incapaci, innervositi, stanchi, in colpa. Un bambino felice e sereno in qualche modo ci dice che siamo stati bravi e che siamo “sulla strada giusta”, mentre un bambino che esterna emozioni spiacevoli o reazioni prorompenti ci mette in discussione (e magari nel marasma di impegni quotidiani ci mette in difficoltà e ci fa perdere tempo).

Partiamo da un presupposto: i bambini come noi provano tutta la gamma delle emozioni umane, non possiamo impedirlo. Ciò che serve al bambino è che l’adulto non entri in crisi, ma ascolti, contenga e gli restituisca ciò che sta provando in modo per lui comprensibile. Insieme si potranno anche trovare modi più appropriati di esprimere le emozioni, ma se il fatto stesso che il bambino ne provi e ne esprima ci spaventa o ci infastidisce allora rischiamo di trasmettere l’idea che le emozioni non vanno bene, non sono consentite.

Che cosa ci può essere dunque di aiuto?

  • Lavoriamo sulle nostre emozioni: mostriamo ai bambini che noi per primi siamo capaci di dare un nome alle emozioni, accettarle come qualcosa di umano, esprimerle in modo adeguato e affrontarle senza scaricarle sugli altri in modo incontrollato. I bambini si accorgono delle emozioni degli adulti e sanno bene che a volte i grandi sono incoerenti perché pretendono dai piccoli qualcosa che neppure loro sanno fare.
  • Ricordiamo che i bambini sono persone: certo è piacevole avere a che fare con bambini gentili, pazienti, felici, ma i nostri bambini non sono dei ciocchi di legno! Noi ci arrabbiamo, siamo tristi, annoiati, invidiosi e lo stesso i bambini. Se noi adulti possiamo aver imparato a reprimerci magari in nome dell’educazione, i bambini sono di solito più spontanei e diretti. Tutti possiamo acquisire la capacità di esprimerci in modo appropriato senza per questo negare le emozioni. Molti bambini si domandano perché mai gli adulti possono arrabbiarsi o piangere e a loro invece sembra non essere concesso.
  • Riconosciamo ciò che è nostro: un bambino arrabbiato o triste esprime qualcosa che ha dentro, non ha intenzione di farci sentire inadeguati, frustrati o in colpa, quindi se ci sentiamo così è un nostro problema e se non ce ne occupiamo finiremo per reagire in modo emotivo e incoerente e questo sarà inefficace. A che serve alzare la voce per dire al bambino di non urlare? E riversare sul bambino la nostra frustrazione perché è arrabbiato?
  • Prendiamo per buoni pensieri ed emozioni dei bambini: possono sembrarci inappropriati, irrazionali, andare contro tutti i valori che cerchiamo di insegnare loro, ma sono reali. Limitarci a imporre subito il nostro punto di vista adulto a suon di “non si fa/non si pensa/non si dice” “che sciocchezza” “non è niente/non è possibile” ha il solo effetto di chiudere il dialogo. Ascoltare serve a capire e capire serve a pensare a risposte più efficaci. Anche quando il bambino non sa cosa gli accade o perché ha fatto una certa cosa ricordiamoci che il suo non lo so può essere reale: siamo noi a doverlo aiutare a fare chiarezza.
  • Instauriamo un dialogo quotidiano: molti bambini avrebbero piacere di raccontarsi ma non sono abituati a farlo o sentono/temono di essere poco ascoltati. Ascoltare non significa fare un piccolo interrogatorio: Com’è andata? Tutto ok. Cosa hai fatto? Niente. Ti hanno interrogato? No. Cosa hai mangiato? Il solito. Cosa sappiamo di più di quel bambino? Praticamente niente. L’adulto che racconta per primo la sua giornata, evitando di fare l’elenco dei fatti ma raccontando qualcosa in termini emotivamente ricchi favorisce naturalmente nel bambino il piacere di raccontarsi. Allo stesso modo evitiamo di parlare solo quando accade qualcosa di brutto magari facendo ramanzine o proprio interrogatori: il bambino si chiude e quando gli accadrà qualcosa di spiacevole magari non lo racconterà e non chiederà aiuto perché si aspetterà di non essere davvero ascoltato. I bambini che cercando di sbrigarsela da soli “se no gli adulti si arrabbiano o partono in quarta” sono tantissimi.
  • Alleniamo l’arte di accorgerci: osserviamo i bambini nel quotidiano per capire che persone sono, come funzionano, di cosa hanno bisogno. Quando non sapranno cosa accade dentro di loro avremo molti più strumenti per farci noi un’idea e aiutarli a capirsi meglio. Accorgiamoci anche dei bisogni e delle emozioni nascoste sotto certi comportamenti: comportamenti dispettosi, piccole bugie…se ci limitiamo a sgridare e stigmatizzare il comportamento non riusciremo a decifrare ciò che si nasconde dietro e non capire ci impedisce di fare qualcosa di utile.
  • Creiamo momenti di espressione di sé anche attraverso canali quali il gioco, il disegno, la scrittura e non spaventiamoci di quello che viene fuori: se il bambino non può incanalare vissuti ed energie neppure in questi modi gli stiamo togliendo ogni possibilità di esprimersi.
  • Il bambino che siamo stati è un punto di partenza: quali bisogni, pensieri, sentimenti, desideri e paure avevamo da bambini nelle varie situazioni? Se ricordiamo sarà più facile metterci nei panni del nostro bambino, perché all’occhio dell’adulto molte cose possono apparire bizzarre o esagerate ma per i bambini sono invece importanti. Non fermiamoci però al è capitato anche a me, so come ci si sente: non siamo esattamente quel bambino, non possiamo sapere se è la stessa cosa, quindi non occupiamo tutto lo spazio con la nostra esperienza ma impariamo ad ascoltare l’altro.

Io e te…due metà della stessa mela?

Spesso quando si pensa alle relazioni di coppia la mente vola all’immaginecoppia delle due metà della mela che insieme formano un bellissimo frutto: siamo alla ricerca dell’anima gemella, quella “dolce metà” che potrà farci sentire finalmente completi, come due pezzi di un puzzle che si incastrano perfettamente.

Ma cosa ci influenza nella scelta del nostro partner? La psicologia ci dice che ogni volta si crea un intreccio di fattori speciale, chiamato “incastro di coppia” che renderà la storia di quei due partner unica rispetto alle altre.

Un elemento che spesso ci influenza è legato alle pressioni sociali. Chi non si è mai sentito porre in una certa fase della propria vita domande quali E allora la fidanzata/il fidanzato?? Quando ti sistemi?? Se poi siete già in coppia ce n’è anche per voi: quando andate a vivere insieme? quando vi sposate? quando mettete su famiglia? Possiamo fare spallucce, arrabbiarci, restarci male, in ogni caso a volte queste osservazioni ci colpiscono. D’altra parte ci è sempre stata tramandata l’idea che le persone “normali” prima o poi stabiliscono relazioni di copia stabili e possibilmente fanno dei figli, dunque mancare una tappa può farci sentire in difetto. Se cercate bene nel vostro albero genealogico potreste anche scoprire qualche parente “s-coppiato” da tutti considerato un po’ strano. Di certo oggi le cose sono cambiate rispetto al passato, ma stabilire rapporti affettivi è un bisogno umano e a volte le pressioni sociali rendono difficile ascoltare con serenità i propri desideri profondi e i propri tempi.

Il contesto socio-culturale e familiare può anche avere un peso nel determinare almeno un po’ le caratteristiche che andremo a cercare nel nostro partner: connotazioni fisiche, provenienza sociale ed etnica, caratteristiche di personalità e modi di fare potrebbero essere più o meno rispondenti ai modelli che ci sono stati tramandati e a ciò che gli altri considerano “appropriato”.

Anche la presenza di conflitti interiori e relazionali irrisolti, le esperienze passate e la particolare situazione in cui ci troviamo nel presente giocano un ruolo importante, ma ovviamente non è facile esserne consapevoli se non a posteriori.

E’ molto interessante provare a chiedere alle persone cosa le ha colpite del partner quando si sono conosciuti: gli aspetti, i gesti, i comportamenti che catturano la nostra attenzione dicono sempre qualcosa di noi e dei nostri bisogni più reconditi. Spesso accade di avere l’inconsapevole speranza che l’altro ci aiuti a gestire in modo diverso certe nostre difficoltà che non si sono dipanate all’interno di altri rapporti umani significativi. Ci sembra che l’altro abbia qualcosa di familiare, un’esperienza o un vissuto simile al nostro, per cui pensiamo che potrà capirci e accoglierci, ma anche qualcosa di diverso, una caratteristica o un modo di fare diverso che dunque potrebbe aiutarci e compensarci.

E’ assolutamente normale durante le prime fasi vivere in una sorta di bolla di amore incondizionato che ci fa sentire appagati e completi, ma con il tempo dobbiamo imparare a conoscere l’altro come persona reale e non è affatto detto che tutto ci piaccia! Vorremmo che l’altro fosse un po’ più simile a come vorremmo noi e curiosamente a volte è proprio ciò che ci aveva tanto attirato all’inizio a farci innervosire: un partner premuroso può diventare soffocante, uno dolce e indifeso può sembrarci ora una lagna, uno forte può apparirci d’un tratto menefreghista. Probabilmente non è però il partner ad essere cambiato: siamo noi a leggere i suoi comportamenti in modo diverso e ora possiamo osservare tutte le sfaccettature della sua personalità.

D’altra parte stare in coppia significa proprio imparare a conoscersi come persone reali, con i propri pregi e difetti, con le proprie capacità di esplorare il mondo, crescere e cambiare. E’ uno scegliersi e ri-scegliersi continuo finchè lo si desidera.

Possiamo allora provare il piacere di essere persone complete e autosufficienti per poi condividere con l’altro il nostro mondo, creandone uno comune e godendo della sensazione di essere una squadra. E’ questo continuo movimento di avvicinamento e allontanamento ad arricchire il rapporto.

Insomma, più che due metà della mela potete essere due ciliegie unite per il picciolo!

Autostima, questa sconosciuta!

La parola autostima è oggi molto in voga. Se un tempo si parlava forse troppo poco di questo tema, oggi è invece sulla bocca di tutti e molte persone pensano che gran parte delle difficoltà che incontrano nella vita sia legata proprio alla mancanza di autostima.

Certamente un buon livello di autostima ci aiuta a vivere meglio, tuttavia dobbiamo ricordare che non si tratta di una panacea contro ogni male: non tutto dipende dalla nostra autostima ed essa non ci rende immuni alle difficoltà della vita, ma piuttosto ci rende più attrezzati ad affrontarle.

Inoltre dobbiamo ricordare che il livello di autostima non è qualcosa di innato, né di stabile nel tempo: esso fluttua lungo l’arco della vita e nelle diverse situazioni, dunque è del tutto normale sentirsi di volta in volta più o meno adeguati, capaci, saggi o meritevoli.

La buona notizia è che non essendo qualcosa di predeterminato e fisso possiamo lavorarci: anche quando la vita ci ha posto di fronte a delle difficoltà non tutto è perduto, ma possiamo fare appello alle nostre risorse e provare a costruire qualcosa di buono per noi stessi.

Per fare questo è importante uscire da una concezione semplicistica del concetto di autostima, che in realtà è qualcosa di complesso, variegato e profondo. Avere autostima infatti non significa genericamente avere successo in qualche ambito nella vita e lavoconfusorare su se stessi non significa mettere in pratica qualche semplice esercizio.

Se fatichiamo a tollerare di vivere momenti di infelicità e insicurezza, se ci lasciamo influenzare da una società che ci vorrebbe sempre vincenti e sorridenti, possiamo cadere nella trappola di cercare soluzioni rapide, concrete, che magari richiedono poco sforzo, con il rischio di restare delusi e di sentirci ancora più incapaci e infelici. Lavorare sulla propria autostima non è certo come montare un mobile seguendo un libretto di istruzioni!bersaglio

Prima di buttarci sul fare dobbiamo capire dove vogliamo andare: se non capiamo cos’è l’autostima finiamo per pretendere di centrare l’obiettivo senza neppure sapere qual è il bersaglio e dunque dove mirare.

 

La parola autostima nella sua accezione più neutra indica il semplice fatto di attribuire un valore alla propria persona, positivo o negativo che sia. In questo senso potremmo dire che nessuno è del tutto privo di autostima: nessuno può vivere senza mai fare un pensiero o provare un sentimento riguardo a se stesso.

Comunemente invece si parla di avere autostima per indicare il fatto di avere un’opinione positiva di se stessi, cioè per indicare il tipo di valutazione che facciamo circa la nostra persona.

Una definizione che aiuta ad uscire un po’ dalla dicotomia positivo-negativo è quella data da Nathaniel Branden. L’autore ci parla del “sentirsi serenamente adeguati alla vita”, cioè sufficientemente attrezzati per provare ad affrontare le sue piccole e grandi sfide, e dunque possiamo riflettere su cosa ciò significhi per ognuno di noi.

Ancor prima però dobbiamo ritrovare una curiosità priva di giudizio verso noi stessi. Come possiamo contare su noi stessi e capire quali sono i nostri personali obiettivi se non sappiamo neppure chi siamo? come possiamo trovare una stabilità interiore se non partiamo dal nostro Sè?

Se provassimo ad esempio a descriverci con un disegno, con un oggetto simbolico o a completare di getto la frase “io sono…”, cosa verrebbe fuori?

Secondo Jung il Sé rappresenta l’unità e la totalità della personalità nella sua parte conscia e inconscia. E’ l’insieme di tutte le parti, consapevoli e inconsapevoli, che compongono ciò che noi siamo nel profondo.

Fin da piccoli, sperimentando il mondo, interagendo con le altre persone, iniziamo a percepire noi stessi, i nostri confini, la nostra interiorità. Osservando come ci muoviamo nell’ambiente, le reazioni interiori che proviamo e quelle che suscitiamo negli altri, ci facciamo un’ideparti del sèa di chi siamo. Tutte le nostre esperienze, belle o brutte che siano, contribuiscono a formarci come persone.

Il nostro Sé diventa come un grande puzzle in cui ogni pezzo è importante. Qualcuno sarà più visibile, qualcuno più nascosto o più difficile da accettare, ma tutti fanno parte di noi.

 

Ritrovare la curiosità verso il proprio Sé, verso ciò che ci caratterizza come persone, senza giudizio, è dunque il primo passo per capire come funzioniamo e di cosa abbiamo bisogno e di conseguenza per lavorare sulla nostra autostima.

…noi abbiamo solo il nostro Sé con cui vivere e affrontare il mondo. Se non riusciamo a essere noi stessi certamente non possiamo appropriarci di un altro Sé, per quanto possiamo desiderarlo. Ogni Sé è diverso da tutti gli altri, è unico e la salute mentale dipende dall’accettazione di questa unicità…

(Rollo May)