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Oltre la paura per conoscere i figli adolescenti

Capita spesso che i genitori portino in terapia il proprio figlio adolescente o pre-adolescente bollandolo come “il problema” o definendo i suoi comportamenti come problematici. Talvolta sono presenti sintomi veri e propri che parlano di una sofferenza già molto profonda, in altri casi i genitori riportano che i figli non ascoltano, non si impegnano, non dialogano con loro, passano tutto il tempo con gli amici o chiusi in casa. Elemento comune è di solito la rigida focalizzazione sugli aspetti negativi, ma se il figlio si sente solo “un problema” e non una persona degna di parola, allora difficilmente si potrà lavorare insieme e trovare una soluzione.

Siamo forse poco abituati a pensare all’adolescenza al di là degli aspetti di crisi, come fase che ha in sé anche elementi positivi o quantomeno di potenziali risorse. L’adolescente non è bambino, non è adulto, ma è persona con i suoi pensieri, vissuti e caratteristiche, seppur in trasformazione. Spesso la comprensibile angoscia e rabbia degli adulti impedisce di porsi una domanda importante: quanto conosco mio figlio come persona? sono in grado di descrivere cosa gli piace, cosa pensa, cosa desidera o come funziona nelle diverse situazioni? Spesso non si riesce ad andare oltre le etichette rigide e stigmatizzanti, ma bisogna sforzarsi di osservare sospendendo il giudizio e ritrovare una curiosità per quel figlio che pure può apparire lontano.

Talvolta la curiosità è bloccata dalla paura. Molti genitori vorrebbero che il figlio tornasse “come prima, quello che è davvero”, intendendo il bambino dolce e simpatico che è stato fino a un certo punto. In realtà il figlio cresce ma è sempre lui, non accettare che possa tirare fuori parti di sé che magari non ci piacciono o ci mettono in crisi significa lanciare un messaggio pericoloso: non vai bene, sei sbagliato. Chiusura, vergogna, senso di colpa, fino all’esplosione di sintomi anche importanti rischiano di essere la risposta.

Spesso mi è capitato di incontrare ragazzi con una grande confusione e sofferenza interiore, impossibilitati ad esprimersi perché timorosi di ferire gli adulti, di essere disapprovati, di non essere aiutati. Una volta un genitore ha raccontato “mio figlio mi guarda con degli occhi che vorrebbero dire tanto, ma non dice, come se aspettasse che io lo legga dentro, ma io non sono capace”. In effetti è proprio così, molti ragazzi sperano che gli adulti siano in grado di immaginare cosa provano, cosa vivono, di cosa hanno bisogno, che siano loro ad aiutarli a fare chiarezza, a dare un nome alle cose e a rassicurarli del fatto che sono normali, contenendoli, trovando insieme una soluzione. La delusione è grande quando i genitori non riescono mai a fare questo: se non sono comprensibile neanche ai miei genitori, come potranno comprendermi gli altri? vuol dire allora che sono sbagliato?

Spesso gli adulti riferiscono di sentirsi estromessi dalla vita dei figli, ma al contempo può emergere la paura di conoscere o una scarsa curiosità. Quanto siamo capaci di osservare, dialogare, ascoltare senza proporre subito i nostri giudizi e punti di vista e senza dare per scontato di sapere tutto o di essere stati figli “migliori”? Se oggi i figli sono l’apice della realizzazione personale, se ogni difficoltà diventa prova della propria incapacità genitoriale, allora il rischio è essere guidati dalla paura, lasciare i figli da soli allo sbaraglio o diventare eccessivamente rigidi per poi scaricare su di loro la colpa se qualcosa va storto.

Le difficoltà dei genitori sono assolutamente comprensibili, ma è importante che loro per primi siano onesti rispetto ai propri sentimenti e difficoltà, che d’altra parte non riguardano solo i comportamenti dei figli, ma anche ciò che capita in altre aree della vita. Ciascuno ha i propri pesi quotidiani da gestire e adolescenza significa anche accettare che i figli crescano, che i nonni invecchino, dovere reinvestire su di sé e sulla coppia. Non è semplice stare dietro agli equilibri che cambiano, ma invece di nascondersi è importante dialogare e costruire una rete di supporto. Se i figli diventano il capro espiatorio o portatori di pesi che non competono loro il rischio è che tentino una sfida impossibile: non crescere, chiudendosi o costruendo un’identità negativa, consentendo ai genitori di deviare su di loro tutta la tensione.

Dobbiamo anche chiederci che idea della crescita, dell’adolescenza e dell’età adulta trasmettiamo ai ragazzi di oggi, anche sulla base delle nostre esperienze passate. Se l’adolescenza è per forza “tutto rose e fiori” come potrò confidarmi con gli adulti quando mi sento confuso e per nulla felice? Se ci si aspetta che io diventi adulto e autonomo tutto d’un colpo come potrò chiedere aiuto se non mi sento capace? come posso crescere con fiducia se diventare grandi vuol dire recidere i legami familiari ed entrare in un mondo adulto fatto solo di fatiche e delusioni? I nostri racconti, i nostri atteggiamenti influenzano le convinzioni dei ragazzi, che oggi spesso partono già spaventati dal futuro.

Proviamo a non pensare all’adolescenza come alla fase in cui si spicca il volo, ma al momento in cui si costruiscono gli strumenti per farlo più avanti. C’è bisogno di allontanarsi un po’ per sperimentare e poi tornare al porto sicuro per elaborare le esperienze fatte, c’è bisogno di adulti che ascoltino ed insegnino ad ascoltarsi, conoscersi, trovare dei confini adeguati. Provocazioni, litigi, ambivalenze e malumori non sono un rifiuto, ma un tentativo di testare la tenuta dei legami e così il lassismo o l’eccessiva rigidità diventano segnali di abbandono. Non evitiamo dunque il conflitto, ma facciamo sì che diventi uno spazio per scontrarsi e incontrarsi, riconoscere limiti e risorse, sperimentarsi con la consapevolezza che i legami affettivi restano saldi.

Bambini ed emozioni: niente panico!

14455700_10209674787722434_925215552_oTutti noi sappiamo che le emozioni sono una parte fondamentale della vita, non solo perché provarne è inevitabile, ma perché rappresentano una sorta di bussola che aiuta a capire di cosa abbiamo bisogno. Anche se a volte ci sembra più facile ignorarle o scacciarle in fretta, anche se viviamo in una società poco capace di “stare” nell’emozione e in cui i sentimenti vengono spesso nascosti come qualcosa di inappropriato oppure urlati e sbandierati ai quattro venti, ci rendiamo conto che sarebbe importante imparare a riconoscere e gestire adeguatamente le nostre emozioni.

Anche nell’ambito dell’infanzia si parla spesso di educazione alle emozioni: i bambini non nascono con competenze emotive innate e hanno bisogno dell’aiuto degli adulti per poter acquisire la capacità di riconoscere, comprendere ed esprimere adeguatamente i loro sentimenti. Ci sono molti libri, giochi e corsi che risultano utili a questo scopo, ma lo sforzo rischia di cadere nel vuoto se l’adulto per primo è poco consapevole di come tratta le emozioni nel quotidiano.

Ad esempio è frequente incontrare genitori che vogliono dare ai propri bambini la possibilità di esprimersi liberamente, ma che poi restano spiazzati quanto ciò accade nel concreto. Ecco allora che la rabbia del bambino, il suo pianto, i suoi capricci mettono in crisi i buoni propositi: ci si sente incapaci, innervositi, stanchi, in colpa. Un bambino felice e sereno in qualche modo ci dice che siamo stati bravi e che siamo “sulla strada giusta”, mentre un bambino che esterna emozioni spiacevoli o reazioni prorompenti ci mette in discussione (e magari nel marasma di impegni quotidiani ci mette in difficoltà e ci fa perdere tempo).

Partiamo da un presupposto: i bambini come noi provano tutta la gamma delle emozioni umane, non possiamo impedirlo. Ciò che serve al bambino è che l’adulto non entri in crisi, ma ascolti, contenga e gli restituisca ciò che sta provando in modo per lui comprensibile. Insieme si potranno anche trovare modi più appropriati di esprimere le emozioni, ma se il fatto stesso che il bambino ne provi e ne esprima ci spaventa o ci infastidisce allora rischiamo di trasmettere l’idea che le emozioni non vanno bene, non sono consentite.

Che cosa ci può essere dunque di aiuto?

  • Lavoriamo sulle nostre emozioni: mostriamo ai bambini che noi per primi siamo capaci di dare un nome alle emozioni, accettarle come qualcosa di umano, esprimerle in modo adeguato e affrontarle senza scaricarle sugli altri in modo incontrollato. I bambini si accorgono delle emozioni degli adulti e sanno bene che a volte i grandi sono incoerenti perché pretendono dai piccoli qualcosa che neppure loro sanno fare.
  • Ricordiamo che i bambini sono persone: certo è piacevole avere a che fare con bambini gentili, pazienti, felici, ma i nostri bambini non sono dei ciocchi di legno! Noi ci arrabbiamo, siamo tristi, annoiati, invidiosi e lo stesso i bambini. Se noi adulti possiamo aver imparato a reprimerci magari in nome dell’educazione, i bambini sono di solito più spontanei e diretti. Tutti possiamo acquisire la capacità di esprimerci in modo appropriato senza per questo negare le emozioni. Molti bambini si domandano perché mai gli adulti possono arrabbiarsi o piangere e a loro invece sembra non essere concesso.
  • Riconosciamo ciò che è nostro: un bambino arrabbiato o triste esprime qualcosa che ha dentro, non ha intenzione di farci sentire inadeguati, frustrati o in colpa, quindi se ci sentiamo così è un nostro problema e se non ce ne occupiamo finiremo per reagire in modo emotivo e incoerente e questo sarà inefficace. A che serve alzare la voce per dire al bambino di non urlare? E riversare sul bambino la nostra frustrazione perché è arrabbiato?
  • Prendiamo per buoni pensieri ed emozioni dei bambini: possono sembrarci inappropriati, irrazionali, andare contro tutti i valori che cerchiamo di insegnare loro, ma sono reali. Limitarci a imporre subito il nostro punto di vista adulto a suon di “non si fa/non si pensa/non si dice” “che sciocchezza” “non è niente/non è possibile” ha il solo effetto di chiudere il dialogo. Ascoltare serve a capire e capire serve a pensare a risposte più efficaci. Anche quando il bambino non sa cosa gli accade o perché ha fatto una certa cosa ricordiamoci che il suo non lo so può essere reale: siamo noi a doverlo aiutare a fare chiarezza.
  • Instauriamo un dialogo quotidiano: molti bambini avrebbero piacere di raccontarsi ma non sono abituati a farlo o sentono/temono di essere poco ascoltati. Ascoltare non significa fare un piccolo interrogatorio: Com’è andata? Tutto ok. Cosa hai fatto? Niente. Ti hanno interrogato? No. Cosa hai mangiato? Il solito. Cosa sappiamo di più di quel bambino? Praticamente niente. L’adulto che racconta per primo la sua giornata, evitando di fare l’elenco dei fatti ma raccontando qualcosa in termini emotivamente ricchi favorisce naturalmente nel bambino il piacere di raccontarsi. Allo stesso modo evitiamo di parlare solo quando accade qualcosa di brutto magari facendo ramanzine o proprio interrogatori: il bambino si chiude e quando gli accadrà qualcosa di spiacevole magari non lo racconterà e non chiederà aiuto perché si aspetterà di non essere davvero ascoltato. I bambini che cercando di sbrigarsela da soli “se no gli adulti si arrabbiano o partono in quarta” sono tantissimi.
  • Alleniamo l’arte di accorgerci: osserviamo i bambini nel quotidiano per capire che persone sono, come funzionano, di cosa hanno bisogno. Quando non sapranno cosa accade dentro di loro avremo molti più strumenti per farci noi un’idea e aiutarli a capirsi meglio. Accorgiamoci anche dei bisogni e delle emozioni nascoste sotto certi comportamenti: comportamenti dispettosi, piccole bugie…se ci limitiamo a sgridare e stigmatizzare il comportamento non riusciremo a decifrare ciò che si nasconde dietro e non capire ci impedisce di fare qualcosa di utile.
  • Creiamo momenti di espressione di sé anche attraverso canali quali il gioco, il disegno, la scrittura e non spaventiamoci di quello che viene fuori: se il bambino non può incanalare vissuti ed energie neppure in questi modi gli stiamo togliendo ogni possibilità di esprimersi.
  • Il bambino che siamo stati è un punto di partenza: quali bisogni, pensieri, sentimenti, desideri e paure avevamo da bambini nelle varie situazioni? Se ricordiamo sarà più facile metterci nei panni del nostro bambino, perché all’occhio dell’adulto molte cose possono apparire bizzarre o esagerate ma per i bambini sono invece importanti. Non fermiamoci però al è capitato anche a me, so come ci si sente: non siamo esattamente quel bambino, non possiamo sapere se è la stessa cosa, quindi non occupiamo tutto lo spazio con la nostra esperienza ma impariamo ad ascoltare l’altro.

Leggere: un piacere che passa dall’adulto al bambino.

lexI bambini nascono con una naturale spinta alla curiosità e all’apprendimento: sostenerla è importante, anche attraverso l’attività della lettura. Ma che significa leggere?

Leggere non è solo riconoscere correttamente lettere e parole, ma dare un senso al testo che si osserva, riuscendo a cogliere man mano un significato d’insieme. Questa attività è importante per lo sviluppo delle capacità emotive e cognitive e può essere proposta ancor prima che il bambino abbia acquisito abilità di lettura autonome. Se con l’accesso al mondo della scuola i bambini imparano gradualmente a leggere sempre più in autonomia, già prima è possibile coinvolgerli leggendo loro storie ad alta voce o guardando e commentando insieme le immagini.neonato

In questo senso il ruolo degli adulti diventa fondamentale: essi non solo possono favorire lo sviluppo di competenze di tipo cognitivo, ma anche stimolare l’interesse e l’amore verso i libri, i testi, le immagini. Poiché con l’ingresso nella scuola primaria il bambino deve fare uno sforzo per acquisire una serie di competenze complesse, avvicinarlo positivamente ai libri già prima può aiutare a ridurre l’emergere di un atteggiamento di avversione verso i testi scritti e favorire lo sviluppo di capacità cognitive e affettive importanti.

lettureI bambini non vanno in questo forzati, ma possono essere ad esempio abituati ad ascoltare piccole storie prima di addormentarsi, imparare che i libri sono qualcosa di importante, da trattare con cura, un regalo piacevole osservando i loro adulti di riferimento. Anche il modo in cui si legge è importante: usare una voce calda, coinvolgente, dalla quale possano trasparire diverse tonalità emotive e differenti personaggi aiuta il bambino a sentire la lettura come un’esperienza positiva, rasserenante, appassionante.

Anche a livello cognitivo, leggere ad alta voce abitua il bambino a un vocabolario più ampio e ciò a sua volta può rendere meno complessa la lettura autonoma: ad esempio, un bambino che inizia a leggere una parola di cui conosce suono e significato probabilmente avrà più facilità nel completarla automaticamente. Se la lettura è meno difficoltosa, il bambino potrà sentirsi maggiormente invogliato a proseguire e a scoprire come continua la storia.

Soprattutto all’inizio può essere molto utile l’utilizzo di testi in cui immagini e parole sono compresenti, ad esempio i libri con illustrazioni dei momenti principali della storia, i fumetti, i racconti-rebus in cui alcune parole sono sostituite da disegni.

Anche quando il bambino sarà maggiormente in grado di leggere in autonomia, continuare a incentivare questa attività è importante: proponendo libri adatti all’età e coinvolgenti, leggendo ad alta voce al bambinoleggere, è più semplice innescare un circolo virtuoso, in cui l’esperienza piacevole e sempre meno faticosa potrà stimolare il desiderio di ripeterla nuovamente.

Oggi in molte città sono presenti diverse librerie per bambini e biblioteche pubbliche che propongono anche attività ricreative e letture ad alta voce per le diverse età. Sapere che esiste un ambiente piacevole e stimolante, a propria misura, può contribuire a invogliare ancora di più i piccoli lettori.

 

Circuito CLEIO librerie per ragazzi

Biblioteche di Roma

 

 

IL BAMBINO CON DISPRASSIA: RICONOSCERNE I SEGNALI PER INTERVENIRE

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La DISPRASSIA è un disturbo evolutivo che colpisce la capacità di compiere gesti e azioni intenzionali finalizzati a un obiettivo. Si presenta principalmente attraverso la difficoltà nel coordinare i movimenti, che può comportare limitazioni in diversi aspetti della vita quotidiana, come vestirsi, lavarsi, allacciare le scarpe, fino a difficoltà di scrittura, lettura e comunicazione delle proprie emozioni attraverso i gesti. I bambini con disprassia faticano, infatti, a rappresentarsi, programmare ed eseguire gesti e movimenti tesi a uno scopo che normalmente si compiono in modo automatico e che invece in questi casi devono essere pensati e pianificati.

La difficoltà può esprimersi anche con una elevata sensibilità agli stimoli, come la luce, i rumori intensi, il tatto, nonchè con una particolare selettività nella scelta del cibo: sono, infatti, bambini che faticano a integrare gli stimoli a livello neurosensoriale.

La difficoltà a organizzare i movimenti delle mani e delle dita può portare a non riuscire a compiere gesti finalizzati all’uso di oggetti o gesti simbolici usati per comunicare e può essere inoltre presente ipotonia degli arti superiori.

Vi possono essere difficoltà di funzionamento dell’apparato fonatorio e oro facciale e nell’articolazione verbale, per cui il bambino può non sviluppare la capacità di parlare, dire poche parole o non riuscire ad articolarle bene.

Possono emergere inoltre disturbi percettivi, visuospaziali e difficoltà di attenzione, comportamento e apprendimento.

L’orgine del disturbo non è chiara. Sembrano entrare in gioco diversi fattori, in parte anche legati alla familiarità del disturbo e a difficoltà, anche lievi, durante la gravidanza e il parto o legati a prematurità e basso peso alla nascita.

La disprassia può essere generalizzata o colpire solo alcune particolari capacità (ad esempio il vestirsi, lo scrivere, il parlare, il camminare, ecc) e può essere in parte compensata dalla capacità del bambino di imparare nel tempo a compiere determinate azioni, che tuttavia vengono eseguite con lentezza.

Il disturbo è talvolta associato ad altre patologie, come la sindrome di Down, la sindrome di Williams, l’ADHD, i Disturbi pervasivi dello sviluppo. In altri casi, invece, non vi sono disturbi associati, nè segni neurologici evidenti e le capacità cognitive sono nella norma, ma possono emergere difficoltà emotive e comportamentali, poichè il bambino vive la frustrazione legata ai propri fallimenti scolastici o al non riuscire a svolgere determinati giochi o attività.

Per questo è importante riconoscere tempestivamente il problema e intervenire per consentire al bambino di recuperare e rinforzare le sue competenze.

A quali fattori di rischio prestare attenzione?

neonatoNel primo anno di vita del bambino:

  • Elevata irritabilità, difficoltà a trovare consolazione;
  • Difficoltà di suzione, alimentazione, sonno;
  • Difficoltà nei movimenti (cambiare posizione, afferrare oggetti col palmo della mano, manipolare gli oggetti);
  • Difficoltà a coordinare lo sguardo;
  • Ritardo nella comparsa del linguaggio, assenza di alcune fasi (lallazione, babbling);
  • Ritardo nelle capacità motorie (gattorare, stare seduto, mettersi in piedi, camminare da solo);
  • Attenzione rivolta agli oggetti molto breve.

In età prescolare:

  • Iperattività motoria;lego
  • Lentezza nello svolgere un qualunque compito e rinuncia in caso di difficoltà;
  • Scarsa capacità di attenzione;
  • Difficoltà nell’addormentarsi o nel sonno;
  • Produzione non di parole ma di suoni isolati, difficoltà nell’articolare parole, produzione inferiore alle 50 parole verso i 2 anni;
  • Difficoltà a seguire i ritmi e a coordinare i gesti con il ritmo di una canzone;
  • Confusione tra le parole che indicano relazioni temporali;
  • Numero di gesti limitato;
  • Capacità di salire e scendere le scale solo se aiutato, difficoltà a scendere o saltare un gradino;
  • Difficoltà nell’uso delle posate (viene imboccato o usa le dita), nello stare su un piede solo o in equilibrio sulle punte dei piedi, nell’uso delle forbici, nel pedalare sul triciclo, nei giochi che richiedono manualità fine (costruzioni, chiodini da infilare, travasi di acqua, puzzle), nella manipolazione e presa di oggetti;
  • Braccia rigide o cadenti lungo i fianchi nel camminare;
  • Difficoltà di socializzazione;
  • Disegno solo a scarabocchi;
  • Gioco simbolico (di finzione) assente o limitato.

In età scolare:

  • Difficoltà di concentrazione e attenzione in classe;
  • Difficoltà negli apprendimenti (soprattutto scrittura, lettura, matematica, elaborazione scritta di storie strutturate, difficoltà a copiare dalla lavagna);
  • Difficoltà nell’eseguire compiti in classe se non seguito in un rapporto uno a uno;
  • Lentezza nell’eseguire un compito;
  • Difficoltà nei movimenti e nel disegno.

A chi rivolgersi? La valutazione del problema deve essere svolta in modo accurato e coinvolgendo diverse figure professionali (psicologo, neuropsichiatra infantile, logopedista, neuropsicomotricista, ecc) per garantire un intervento integrato e completo.

Spesso è il pediatra il primo professionista a cui ci si rivolge, dunque è importante che il medico sappia raccogliere tutte le informazioni utili ed effettuare una prima ipotesi diagnostica, in modo da indirizzare chi si prende cura del bambino a un approfondimento più mirato.

FIGLI, GENITORI E COMING OUT : USCIRE ALLO SCOPERTO IN FAMIGLIA

FIGLI, GENITORI E COMING OUT : USCIRE ALLO SCOPERTO IN FAMIGLIA

compassion-857723_640“Coming out” significa “uscire allo scoperto” e si riferisce solitamente alla scelta di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere.

Per le persone omosessuali o bisessuali, in particolare, il coming out rappresenta una tappa importante nella costruzione dell’identità e dell’autostima: è un processo che parte innanzitutto dall’accettazione di sé, per poter vivere con più serenità e senza nascondersi, imparando a gestire lo stigma sociale.

Nonostante, infatti, l’omosessualità non sia una malattia e ciò sia stato ufficialmente riconosciuto, la nostra società non appare davvero pronta ad accettarla come qualcosa di reale e naturale. I fatti di cronaca ci raccontano di violenze e discriminazioni, ma, più in generale, parte della società e delle istituzioni non accetta o lo fa solo a parole la realtà dell’omosessualità: non solo sono ancora diffusi alcuni stereotipi, ma si fatica a superare la paura che l’adeguata regolamentazione di diritti e doveri più paritari possa minacciare valori e forme di coppia e famiglia più tradizionali.

Dati Istat (Report 2011 sulla popolazione omosessuale nella società italiana) rilevano che la maggior parte degli intervistati riconosce l’esistenza di discriminazioni nei confronti di omosessuali, bisessuali e transessuali e probabilmente per questo il 29,7% ritiene che sia meglio che essi non rivelino il proprio orientamento sessuale.

La maggior parte degli omosessuali/bisessuali intervistati ha dichiarato di aver percepito o subito apertamente discriminazioni riferibili al proprio orientamento sessuale in diversi contesti e parte del campione totale (20%) ha preferito non fornire informazioni rispetto al proprio orientamento sessuale, segno che il tema è particolarmente delicato. Solo il 20% circa dei genitori di chi si dichiara omosessuale o bisessuale è a conoscenza della condizione del figlio, mentre sembra esservi maggiore possibilità di parlare con fratelli/sorelle (45,9%), colleghi (55,7%), amici (77,4%).

In ambito psicologico, alcuni studi hanno cercato di ipotizzare le origini dell’omosessualità o si sono concentrate sulle famiglie omogenitoriali, cercando di valutare il benessere dei figli.

Non ci interessano qui i risultati e le ipotesi, non appare utile assumere atteggiamenti giudicanti, in senso negativo o positivo, né pensare di dover dimostrare per forza qualcosa. Viviamo in una società in continuo mutamento e in cui tutti viviamo esperienze, relazioni, quotidianità molteplici, ma reali, delle quali dobbiamo prendere atto e incuriosirci. Dunque potremmo chiederci cosa possono vivere un figlio e una famiglia rispetto all’omosessualità e al coming out e quali sono le sfide che più spesso si troveranno ad affrontare: questo ci può aiutare a trovare modi adeguati di sostenere chi deve confrontarsi con queste tematiche e con queste tappe di vita.

Generalmente, il riconoscimento e la scoperta della propria omosessualità genera stress, soprattutto se si vive ancora in famiglia e in contesti che favoriscono lo stigma sociale. L’accettazione di sé come persone con un orientamento omosessuale, ma pur sempre di valore, può agevolare il coming out, che resta comunque un processo graduale e continuo, poiché man mano si sceglierà se, a chi e come dirlo.

È un passo che può essere vissuto diversamente da persona a persona, ma che per molti rappresenta una liberazione, dolorosa ma necessaria. È chiaro che sentire il supporto delle persone significative è importante, soprattutto in determinati momenti, tuttavia bisogna ricordare che il coming out di un figlio rappresenta un evento non previsto e dunque sconvolgente per la famiglia. Le reazioni potranno essere diverse in base alla particolare cultura familiare e individuale, alla qualità delle relazioni, alle modalità di funzionamento, alle aspettative sul figlio. Nei genitori possono farsi spazio emozioni anche molto ambivalenti, tra la rabbia, la vergogna, il sollievo, il senso di colpa, che possono essere elaborate più o meno velocemente o possono dare vita a un rifiuto irremovibile.

Non dimentichiamo che ormai i figli sono sempre meno, sempre più pianificati e caricati di aspettative e richieste di risarcimento affettivo e rassicurazione: qualunque ostacolo ai propri piani rischia di mettere in crisi i genitori. Si può avere paura per il benessere del figlio o sentirsi in colpa perché si pensa di aver sbagliato qualcosa o di non aver capito nulla di lui. Bisogna inoltre ridimensionare certe fantasie sul futuro dei figli che erano date per scontate e fare i conti con la paura dello stigma sociale.

In realtà, questi aspetti non sono insiti solo nelle situazioni di coming out da parte di figli omosessuali, ma più in generale si ripresentano ogni volta che un figlio sceglie di condividere una parte importante del proprio sé tenuta nascosta, perché soffre nel non potersi mostrare e nel non sentirsi riconosciuto come persona reale. Quante volte occultiamo a noi stessi o agli altri, in primis i nostri cari, parti di noi che pensiamo inaccettabili? Quante volte non abbiamo il coraggio di esprimere chiaramente le nostre scelte, inclinazioni, bisogni, emozioni per paura delle conseguenze o di deludere le aspettative? Se proviamo a riflettere in questi termini, ci rendiamo conto di come ognuno nella vita debba affrontare i propri coming out, indipendentemente dall’orientamento sessuale.

Un bel video su questo tema è stato realizzato nell’ambito del progetto Condividilove, in collaborazione con l’Associazione Agedo (Associazione genitori di omosessuali), in occasione del Coming Out Day 2015

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